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Title: Atti del 52° Congresso Nazionale: Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI)
  • Document date: 2019_10_15
  • ID: jkke8ije_26_1
    Snippet: i e dello stesso rischio relativo cumulativo, come evidenziano altresì le profonde differenze tra i risultati generati dalle due metodologie in alcuni specifici contesti di valutazione del rischio (https://www. ahajournals.org/doi/pdf/10.1161/JAHA.116.004210). Una seconda, fondamentale problematica metodologica associata all'analisi dei dati ed all'interpretazione dei risultati è legata all'uso del valore della cosiddetta 'funzione P' come indi.....
    Document: i e dello stesso rischio relativo cumulativo, come evidenziano altresì le profonde differenze tra i risultati generati dalle due metodologie in alcuni specifici contesti di valutazione del rischio (https://www. ahajournals.org/doi/pdf/10.1161/JAHA.116.004210). Una seconda, fondamentale problematica metodologica associata all'analisi dei dati ed all'interpretazione dei risultati è legata all'uso del valore della cosiddetta 'funzione P' come indicatore della presenza di effetti 'causali', generalmente attraverso la sua dicotomizzazione sulla base delle due soglie tradizionali pari a 0.05 e 0.001. Questo approccio consente l'individuazione in un singolo studio o in una meta-analisi della cosiddetta 'significatività statistica' dei risultati ottenuti, cioè dell'erroneità della cosiddetta 'ipotesi nulla'. Tale metodologia ha sfortunatamente pervaso l'intera ricerca biomedica (nonché altre discipline) da quasi un secolo, da quando cioè nel 1925 lo statistico inglese Ronald Fisher ipotizzò come un valore di P inferiore a 0.05 consentisse di attribuire l'esistenza della cosiddetta 'significatività' alle differenze osservate tra singoli sottogruppi nell'ambito di uno studio. Questo approccio ha esercitato gravi effetti sull'analisi e l'interpretazione dei risultati della ricerca scientifica, assegnando in modo erroneo a tale valore di 0.05 la capacità di validare o escludere l'effettiva esistenza di relazioni causali. Intere generazioni di professionisti e ricercatori, specie in ambito sanitario, si sono così formate all'uso di tale criterio 'convenzionale' nell'interpretazione dei risultati delle analisi statistiche, col rischio di commettere in tal modo seri errori metodologici quali l'attribuzione di un effettivo ruolo causale alle associazioni 'statisticamente significative' (< 0,05 e soprattutto < 0,001) o l'esclusione di tale nesso di causalità nel caso opposto. L'apprezzabile lavoro di metodologi quale l'epidemiologo statunitense Kenneth Rothman e numerosi altri ricer-catori e metodologi, e più recentemente dell'intera Associazione Statistica degli Stati Uniti (https://amstat.tandfonline.com/doi/fu ll /10.1080/00031305.2016 .1154108) ha evidenziato l'impropriatezza delle interpretazioni basate sulla significatività statistica e quindi su soglie prefissate del valore di P. Recentemente, un articolo di Nature (https://www.nature.com/articles/d41586-019-00857-9), sottoscritto da diverse centinaia di ricercatori e prontamente ripreso dalla Società Italina di Igiene nel numero del 13 aprile 2019 di 'Igienisti-on-line' (http://www.igienistionline.it/ archivio/2019/10.htm), ha ribadito l'importanza di abbandonare l'uso e il concetto della significatività statistica, a favore dell'analisi delle stime di effetto, della loro instabilità statistica (illustrata dagli intervalli di confidenza) e dell'analisi delle distorsioni metodologiche caratterizzanti i singoli studi. Anche nelle procedure di risk assessment, pertanto, l'uso della significatività statistica sta conoscendo una profonda 'crisi d'identità', con progressiva diminuzione della sua utilizzazione e della sua validità metodologica, come già da tempo riconosciuto da Enti quali l'EFSA (https:// efsa.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf /10.2903/j.efsa.2011.2372) .

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